L'Antropocosmologia di Marazzi - Giorgio di Genova

Paolo Marazzi, dopo aver ripercorso il suo iter di esperienze dove riferisce del fascino subito dalla Cupola di Michelangelo, dal Colonnato di Bernini, nonché dalle sue sculture barocche, e dal Laocoonte.
Tutte opere, come si vede, in cui a predominare è la linea curva, che per Marazzi è divenuta l'ideale formale ed espressivo per articolare quel «concetto statico - dinamico… usato nello spogliare il blocco di pietra».
Ma, come per il Colonnato del Bernini, che, è noto, simboleggia il grande abbraccio della Chiesa all'umanità, alla base delle opere di Marazzi c'è sempre una simbolizzazione di forme naturali, nella fattispecie l'uomo.
Infatti, ancorché le sue ritmiche plastico-spaziali siano il frutto di un processo di stilizzazione fortemente controllata da una ratio geometrica che concepisce tutto, certo per riferimento ai sostrati cosmici dell'essere, come curve e spirali (curve e spirali che spesso si intricano, proprio come è nell'ellenistico Laocoonte che tanto lo affascinò: ma, si sa, ognuno è attratto da ciò che somiglia a quello che ha dentro), è l'uomo il soggetto costante della produzione di Marazzi, anche quando con le sue forme curve decora le sue tarsie a marmi policromi.
Ed è dall'uomo, cioè dall'accanito esercizio di sintesi delle positure umane che hanno dato "Chitarrista 1975", "Atleta 1976"," Equitazione e Slalom 1977" ed il Monumento all 'Astronauta 1981 di S. Maria delle Mole, che pian piano Marazzi ha raggiunto quella verità che già nel Rinascimento, come tra gli altri Leonardo e Dùrer hanno addirittura verificato sull'im magine dell'uomo appunto, s'era fatta evidente.
Dico la coincidenza di microcosmo e macrocosmo, nel caso specifico di uomo e Cosmos. Ecco, allora definirsi le recenti opere, che dopo un riferirsi metaforico al sistema planetario ("Rotazione e rivoluzione 1987"; "Pianeti 1988"), passando per l'agnizione delle "Masse Cosmiche 1987", penetrano nella nuova dimensione cosmica (Penetrazione cosmica 1988) per abbandonarsi finalmente all' "Estasi galattca 1988".
Si tratta, ovviamente, di un' ascensione spirituale simbolica attizzata dai processi ontogenetici delle forme, che come ognun sa sono fortemente intrecciati alla sfera eidetica, e soprattutto nella scultura, arte faticosissima che rimette in contatto con le sedimentazioni geologiche chi la pratica, riattivando in lui i sostrati ancestrali che legano l'uomo alla Tellus Mater, ma anche alla storia del passato che ha fatto sì che l'homo faber divenisse artifex, sostrati questi che per quanto riguarda Marazzi sono addirittura tradizione di famiglia: egli ci tiene a ricordare che i suoi antenati erano originari di Cremona e facevano parte di quelle famiglie che nel Seicento migrarono a Roma al servizio di Gianlorenzo Bernini. A mio avviso è proprio questa sensibilità di Marazzi alle radici collettive e famigliari, oltre alla sua interiore esigenza di colore, che lo ha portato a rispolverare, per così dire una tecnica che nel mondo contemporaneo s'è quasi perduta, se si eccettuano certi prodotti artigianali che ancora qua e là, per esempio a Pietrasanta, si realizzano.
Mi riferisco alla già tirata in ballo tarsia che questo unico difensore delle «pietrare», come s' è egli stesso definito, o questo «mano di ferro»> come lo ha definito Mastroianni, ha ripreso a praticare come discorso artistico, quasi a voler riprendere il discorso interrotto nel Seicento, all'epoca appunto di Bernini, ma anche a continuare la tradizione dei Vassalletto e delle famiglie Cosmatesche e Comacine, di cui Roma conserva numerose e preziose testimonianze. Le tarsie di Marazzi sono come una sorta di illustrazione del suo sentire cosmico; sono una sorta di «tavole didattiche» dell'immaginario cosmico che egli avverte così forte in sé in quanto uomo-microcosmo e che attraverso una sorta di transfert psicologico di forti risonanze ancestrali affida alla pietra, in quanto per lui, «la pietra è la spina dorsale del cosmo e delle galassie».
Pertanto queste tarsie divengono un po' lo specchio in cui ciascuno di noi può riflettersi come entità appartenente al cosmo e nello stesso tempo riconoscersi in virtù di questa riflessione che coinvolge, come lo stesso termine dice, sia la sfera visiva che quella mentale.
Specchi cosmici dunque, dove viene ribadita la profonda unione di microcosmo e macrocosmo.

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