Alla radice del cosmo - Leo Strozzieri

Marazzi e la tarsia: un sodalizio ormai consolidato che dura da anni e che si rinnova continuamente con la reinvenzione di motivi estetico - formali in precedenza soltanto intuiti odi disponibilità funzionali un tempo semplicemente supposte.
Questo antico mestiere che ha toccato aree geografiche di straordinaria civiltà come la Persia, l'Egitto, la Grecia, Roma per poi essere rinverdito nel medioevo dalle famiglie Cosmatesche, Comacine e Vassalleffo, é un esempio di fabbrilità assunta a ruolo di arte; fare i conti con le pietre, con la vita misteriosa sedimentata da millenni nelle pietre, che - straordinario a dirsi - costituiscono il primo capitolo della stessa storia dell'uomo; fare incetta di queste pietre, del marmo greco, di cipollino, broccaletto, di fior di pesco, di porfido rosso, verde, di onice del Perù, del Brasile, del Pakistan, dell'alabastro orientale o cotognino onde pervenire alle circoscrizioni magiche dell'arte attraverso - perché no - la fruibilità decorativa atta a rimuovere i meccanismi perversi della intenzionalità utilitaristica d'ogni agire umano.
Marazzi riprende con professionalità e competenza il discorso sulla tarsia, che a partire dall'età barocca si era interrotto per un'insipienza storico-ideologica, e lo fa con una tensione tutta nuova rispetto al passato, essendo inalienabile il patrimonio delle avanguardie storiche ed anche la consapevolezza scientifica delle virtualità ed energie della materia; se il tirocinio tecnico é lo stesso degli antichi operatori, le coordinate culturali e scientifiche di un artista contemporaneo sono totalmente diverse, e pertanto è comprensibile una risemantizzazione dei materiali, dell'operatore e della stessa azione creatrice.
Per cominciare, la consapevolezza di un tempo enfaticamente attivo coinvolge Marazzi quando è al cospeffo della forza stoùca dei materiali; voglio dire che egli si pone in modo assai diverso dinanzi ad una lastra di marmo, rispetto ad un artista di cinquemila anni fa. Nell'atto stesso di definire le sue geometrie con una chiarezza rituale, all'artista si aprono percorsi ed impaginazioni d'un tempo effettivamente lungo (egli usa pietre antiche); i materiali lapidei più svariati, i cui nomi tra l'altro rimandano alla via della seta, hanno già una brulicante concentrazione di verità, di splendore grafico, di sensibilismi ideografici, di alacrità organica accumulata nel tempo.
E suppongo che le lastre stesse, ieratiche, con iscritte arcaiche vestigia, siano per Marazzi garanzia di espressionismo materico che intende rispettare, al di fuori di ogni ridondanza barocca che mai impoverisce il fluido repertorio degli intagli le suggestioni che si epifanizzano in virtù di quello che chiamerei universo cromatico-segnico di ogni superficie, sono polivalenti con richiami alchemici o psicoanalitici (tessiture culturali correlative all'attuale livello di ricerche antropologiche); intanto esiste il dualismo dialogico declinabile-declinato dal caso tra il colore base del marmo o della pietra e i segni rudimentali, le venature configuranti alternativamente presenze vegetali, microcosmi naturali, gabbie che coartano immagini archetipiche, meteore ribaltanti ogni regola prospettica, filamenti nomadi con deviazioni, scacchi o interruzioni.
Ma poi, a questo operatore tenace attivo nel campo ormai da un quarto di secolo, le pietre - autentiche pagine del tempo - offrono spunti magistrali che egli esplicita nell'esecuzione delle opere, come ad esempio l'irripetibilità e quindi la reazione critica alla serialità e al trultiplo impensabile per il ritmo spontaneo della materia, ed ancora la certezza dell'mesauribilità combinatoria degli elementi, il consolidamento dell'assunto che qualsiasi informazione visiva di per sé ermetica va soggettivamente dinamicizzata con fantastiche proiezioni del proprio io che crede di vedere di volta in volta nel ricchissimo mondo grafico delle superfici delle figure, delle relazioni, delle geometrie, delle aperture costruttivistiche. L'omologabilità del centralismo dell'interesse combinatorio all'infinito di Marazzi nelle sue tarsie, si ha nell'evidente predisposizione ludica (a questo si prestano i vari tasselli) che procura godimento all'artista e al fruitore, deboli entrambi al fascino dell'intelligenza immaginativa e della meraviglia dinanzi all'incognito suggerito dalla materia che si manipola.
Il gioco, spazio aperto alla fantasia, bisognosa però di sequenze logiche e per esigenze formali e soprattutto per un appagamento psicologico, rispecchia l'attuale struttura della società che si carafferizza per la mobilità, per il propagarsi di aperture a incastri e svincoli in un breve asso di tempo.
Ma per tornare alla ricchezza grafica già insita nelle pietre, influsso delia memoria del tempo, che suggerisce divagazioni fantastiche, si nota talvolta un nuovo tipo di gioco che definirei onomatopeico, quasi che Marazzi intenda rifare il verso ai grafemi naturali seguendo, nei tagli delle pietre, i virtuosismi che però si consostanziano in volumetria e relazionamenti plastici. Sicché egli, prima di operare i suoi assemblaggi, paradossalmente trova dei limiti nell'oggettualità della materia, ove è fissata una situazione estetica prodotta dal gesto lento, misurato, paziente del tempo che inebria di germinazioni i blocchi di materia, che una volta sezionati in lastre attraverso le spugnature, le lucidature offrono uno spaccato dell'intrinseco habitat estetico della medesima. Lo spessore dialettico tra il colore di base della pietra e il lirismo dei segni comunica all'artista una frenesia operatva, status per interare l'impulso dell'io con la morfografia preesistente. Infatti proprio l'esecuzione della tarsia determina l'attuazione della compresenza di ricordo kantiano tra l'a posteriori (la materia con proiezioni ed interventi della vis arcaica delle ere geologiche) e l'a priori del soggetto che determina l'oggettività e quindi l'universalità. Il motivo dominante di tutta la sua opera sectile è proprio questo armonico contrappunto, teso ad esclamare l'insolazione cosmica.
E di questa che intendo ora parlare, non senza aver prima speso qualche parola interpretativa sul virtuosismo esecutivo, precedentemente da me definito ludico, che per analogia miricorda le sculture mobili di Calder (il gioco aveva in lui risonanze ideologiche precise e destabilizzanti).
Calder è un virtuoso che gioca, giovandosi anche dell'esperienza del giovane Arp (penso ai ritagli di materiali comuni che assemblati si dotano di esteticità), a collocare nello spazio tridimensionale i suoi elementi vivacemente colorati per lo più metallici, allo scopo di azzerare le certezze logico-etiche; invece Marazzi il suo virtuosismo che equivale a forza inventiva lo pone al servizio della rinascita d'un nuovo umanesimo.
Stirando la superficie, trasparente per logicità geometrica e sublimando le fusioni ed adiacenze dei vari tipi di materiali, Marazzi lacera il dubbio, riconduce all'unità la realtà frammentaria, sul modello e non con nostalgia dei valori del passato, da cui attinge un potere di preveggenza poetica che si estrinseca nell'autorità delle forme. Suffraga questa ipotesi di lettura l'intera produzione scultorea dell'artista romano, la cui assolutezza delle forme e semplificazione strutturale, nonché composta monumentalità s'inserisce di certo nel contesto della cultura della certezza e non del dubbio.
La stessa vivacità cromatica che accentua l'aspetto sensoriale delle tarsie è improntata a desiderio di superare l'ermetismo attraverso una più efficace comunicatività.Si diceva della sua coscienza cosmica tangibile nella predisposizione a leggere e commentare il prolungamento a ritroso dell'uomo facente parte della materia da sempre organica e ciclica e soltanto all'apparenza mummificata o statica. Appartenere da sempre alla grande fysis è formale convinzione dell'artista, alla cui sapienza compositiva non sfugge l'utilità funzionale dell'andamento curvilineo, apologetico quanto mai per simboleggiare l'unico ceppo originario dell'universo, uomo compreso, o se si preferisce il campo indifferenziato da cui è partito il processo creativo.
Ecco perché Marazzi nella composizione delle tarsie propende per il tondo, pur non disdegnando altre forme geometriche: si avverte un flusso di perfezione, un movimento dinamico verso il suo centro. La storia ha assistito ad un differenziarsi delle realtà dall'unico principio, e per quanto riguarda l'uomo ad un progressivo allontanamento dal centro (vera e propria irruzione monarchica) per cui è stato mortificato in lui il sigillo cosmologico ed adempiuta una cesura dalla matrice, unica depositrice della protostoria umana: l'arte sectile di Marazzi vuole epicizzare le origini cosmologiche dell'uomo compiendo una sorta di retrospettiva fino al momento cruciale dell'emancipazione. La disarticolazione è oscena e l'allegoria del panismo necessaria.
All'autorappresentatività di ogni singolo tipo di marmo o pietra usata dallo scultore romano, si affianca la tensionalità di relazione (la definirei rappresentatività di ordine antropologico essendo proprio dell'uomo il mistero del linguaggio cosciente) dei diversi tipi compositi con estrema precisione di taglio per lo più curvilineo e con un'esuberanza di parallelismi, quali concavo-convesso o pieno-vuoto in senso progettuale s'intende.
È un'intrecciarsi sulla scultura-superticie di ritmi, cadenze, risonanze; l'evento plastico coincide totalmente con la superficie stessa nella sua ininterrotta frontalità. L'idea della scultura come foglio fu a suo tempo di Consagra, ma nel nostro caso non si hanno sovrapposizioni ma giustapposizioni. Comunque è dato percepire la stessa volontà di togliere l'oggetto dal centro ideale dominciando ad eliminare una dimensione, quella che avrebbe conferito connotazioni totemiche all'opera.
Per Marazzi il rifiuto della scultura totemica è rifiuto del potere oggettivo onde poter approdare al grande prato dell'inventiva.
L'intero corpus delle sue tarsie in cui volutamente si ripropone il suo istinto decorativo è provocazione per una civiltà fredda, razionalizzante e utilitaristica come l'affuale ed altresì monito vichiano affinché sussista l'omiletica della fantasia.
La politezza, l'esibizione del diletto che penso l'artista provi parossisticamente nell'esecuzione delle splendide tarsie, lo sfoggio delle giaciture cromatiche che emanano quasi un magnetismo ottico, la musicalità senza pause o intervalli delle linee mai ngrde, l'eco seppur lontana d'una serena bisanzio, l'esaltazione del movimento armonico ed essenzializzato: è quanto si può e si deve leggere nella favola che non inaridisce in un atto di estremo antiutilitarismo.
Un rischio nell'analisi della produzione sectile di Marazzié quello di credere che l'esecuzione sia stata estremamente semplice, quasi ovvia per uno che sappia gestire con scaltrezza l'antico mestiere appreso nei molti anni passati per il restauro in Vaticano.
Non è così, poiché è necessaria una laboriosità incredibile.
Esiste un primo fondamentale momento segnico quando lo scultore proietta con rapidità, talvolta lasciandosi guidare dal caso, le sue pulsioni sulla carta, con successivi interventi costruttivi mirati ad equilibrare gli spazi. Procede quindi a consolidare plasticamente alcune porzioni di superficie delimitate dal segno onde relazionarle con l'uso del colore ricavato dall'impasto di polveri di marmo diverso da cui si sprigiona una luminosità ed una trasparenza tutta propria.
Sono i bozzetti delle opere, cartoni della stessa dimensione delle tarsie: veri appunti dell'idea che in seguito si concretizza e prende forma incontenibile, gioiosa, armonica.

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